giovedì 16 agosto 2007

Musica: The Good, the Bad & the Queen

Con i Blur da tempo in posizione di attesa, Damon Albarn non è mai rimasto con le mani in mano: side-projects in quantità e nessun particolare clamore quindi per questa ennesima smania espressiva, non fosse per il fatto che porta con se l'affascinante novità di un supergruppo assolutamente imprevedibile quanto ricco di appeal, da fantasticarci sopra in anticipo per mesi e mesi, almeno per chi come me si è rifiutato di cimentarsi in pre-ascolti.
Con Albarn voce solista e keyboards, c'è la sobria chitarra di Simon Tong (già Verve), alla batteria uno di quei nomi che ai più non dicono nulla, ma ad un cultore di musica mettono soggezione, Tony Allen, il batterista di Fela Kuti, praticamente inventore dell'afro beat, al basso una figura di culto del punk, quel tizio immortalato a novanta gradi mentre si appresta a spaccare il suo strumento sul palco nella leggendaria copertina di London Calling dei Clash: si, esatto, mr. Paul Simonon.


Su liriche pungenti spesso riguardanti la attuale situazione socio-politica inglese (di nuovo Ray Davies docet), l'album musicalmente si distende quieto, riflessivo, nessuno spazio per il divertimento o arse-shaking d'ogni sorta, atmosfera briosamente plumbea, l'uso di tappeti elettro-sintetici è sempre perfettamente bilanciato dalla strumentazione standard, il basso profondo e quasi sempre dub di Simonon, i ricami chitarristici di gran gusto di Tong, il drumming mai prevedibile del vecchio saggio Allen.
Inutile, per certi versi, citare brani specifici, proprio per l'omogenea alta qualità delle dodici tracce, un lavoro per il quale è superfluo cercare paragoni o accostamenti, ma per accontentare gli amanti dei paragoni a tutti i costi si potrebbero tirare in ballo il mood quietamente oscuro caro al Nick Cave degli anni ‘90 che pervade l'album nella sua totalità, lontani echi di Morricone nella seconda metà del cd, spruzzate moderate di Gorillaz (e dei Blur riflessivi di Think Tank).


Si potrebbero citare Northern Whale ed Herculean, che si avvolgono in un mantra elettro degno dei migliori Air, Kingdom Of Doom, splendido dreamy pop molto "blurred" o 80's Life, doo wop da terzo millennio, ma, in generale, siamo di fronte ad un lavoro difficilmente catalogabile, che profuma di tutto senza citare apertamente nulla, e che proprio per questa peculiarità è già un classico, un album destinato a durare nel tempo, per il quale non si potrà dire neanche fra trent'anni che ”suona datato”.
Le dichiarazioni di facciata giustamente danno i meriti di cotanta originalità equamente divisi per quattro, ma è innegabile che Albarn abbia recitato la parte del leone edificando le fondamenta del tutto, complimenti vivissimi.

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